Introduzione del 1995
Introduzione del 2001
1. Due Bianciardi al prezzo di uno
2. «Il mondo va così, e va male»
3. La «diseducazione sentimentale»
4. La giornata d'un traduttore
Bibliografia
Introduzione del 1995
Intrecciando l'analisi dell'Io – nei suoi rapporti col protagonista e l'autore – e l'analisi della struttura del romanzo, si è tentato di mettere in luce come l'elemento autobiografico determini la struttura della Vita agra.
R.A.
Ancona, maggio 1995
Introduzione del 2001
A sei anni di distanza dalla stesura di questo
saggio, ho avvertito l'esigenza di trasformarlo in un sito e di
metterlo in rete, perché le parole di Luciano Bianciardi, scrittore
anarchico toscano che negli anni Sessanta, in pieno miracolo
economico, pubblicò il romanzo La vita agra, sono oggi, con
l'avvento delle destre al governo (e la promessa di un nuovo boom
economico), attuali e, soprattutto, utili per vedere e capire
il mondo che ci circonda. Per coloro che già hanno letto questo
divertente e amaro romanzo (di ambientazione milanese), il sito può
essere l'occasione per approfondire la conoscenza di Bianciardi; per
tutti gli altri, sarà uno stimolo (mi auguro) per incontrare questo
scrittore dissacrante e apprezzare la sua Vita agra.
R.A.
Ancona, maggio 2001
Ancona, maggio 2001
1.
DUE BIANCIARDI AL PREZZO DI UNO.
Ci sono due Bianciardi
nella Vita
agra1.
L'elemento autobiografico, si sa, è uno degli assi portanti della
narrativa bianciardiana. Tuttavia, se nel Lavoro
culturale2
e nell'Integrazione3,
l'autore aveva allontanato da sé la materia spartendosi tra due
protagonisti, Luciano e Marcello; ora, in questo terzo lavoro,
Bianciardi concentra la narrazione su un singolo protagonista
riempiendo così quell'intercapedine, quello spazio divisorio
precedentemente aperto tra sé e la storia raccontata. Effetto
immediato è il sovrapporsi, in un unico Io, di autore e narratore e
protagonista. Talché, leggendo la saggistica che ruota attorno alla
Vita agra,
ci accorgiamo che i critici, fin dai primissimi articoli in terza
pagina usciti a meno di dieci-quindici giorni dalla pubblicazione del
romanzo, parlano dell'Io narrante indifferentemente attribuendolo
all'autore come al protagonista. Ma questo appiattimento dell'autore
sul protagonista, se viene esteso all'intero arco temporale entro cui
si snoda la narrazione (una decina d'anni circa, e cioè dall'arrivo
di Bianciardi a Milano nel 1954, al 1962, anno in cui Bianciardi
scrive La
vita agra),
questo appiattimento, dicevo, se generalizzato non è accettabile. La
coincidenza tra il Bianciardi-autore e il Bianciardi-protagonista4
si realizza invece lungo l' asse temporale della vicenda narrata; che
non coincide, si badi, con l'asse sintagmatico del romanzo. Infatti,
la scansione con cui ci vengono dati gli elementi della storia è un
ordo
artificialis
che non rispetta il ritmo logico-cronologico dell'ordo
naturalis. Così,
già nei primi capitoli, Bianciardi ci dà, con la sapienza del
B-1962, tutti gli elementi della storia e della polemica. Ciò
significa che il B-autore e il B-protagonista coincidono. La
sfasatura avviene invece nei capitoli centrali, dove il B-autore,
nella sua furia iconoclasta, fa a pezzi anche il se stesso
protagonista, quel Bianciardi ingenuo e idealista salito a Milano
dalla provincia di Grosseto. Ed è proprio in virtù di questa
sfasatura che l'autore ha la facoltà di riviversi, ma col senno di
poi, e di analizzare quindi il cammino che ha portato il
B-protagonista verso il B-autore, cioè, verso il se stesso che ora
scrive. Una volta ultimato il percorso e ristabilita l'unità, al
B-autore-protagonista non resta che analizzare il se stesso attuale:
ci racconta così la giornata d'un traduttore.
Ma passiamo senz'altro a
vedere più da vicino le tre parti in cui ho suddiviso il romanzo.
1
L. Bianciardi, La
vita agra
(1962), Milano, Rizzoli, 1993. Da questa edizione le citazioni a
seguire nel testo.
4
Per comodità abbrevierò: B-autore, B-protagonista e simili.
2.
«IL MONDO VA COSI’, E VA MALE».
(Analisi
della prima parte del romanzo: capp. I, II, fino a p. 43 del cap.
III).
E’ la presenza, in questi
capitoli, di tutti gli elementi della storia e della polemica a
rivelare la sovrapposizione del B-autore al B-protagonista. Le prime
quarantatré pagine del libro sono infatti una miniera di
informazioni date, però, con quella scioltezza colloquiale propria
di una comunicazione tra due interlocutori che ne conoscono il
contesto. Dando per scontato, anzi fingendo di dare per scontata
questa situazione comunicativa, Bianciardi può aprire il romanzo
avviando un discorso che scorre lungo un itinerario, sviluppato
prevalentemente per associazione di idee. Il lettore viene così
investito da uno sfogo polemico che aggredisce tutta la vicenda
milanese e immediatamente pre-milanese dell'Io narrante. Ecco allora
un accavallarsi di nomi, fatti, luoghi, co tortuoso me è tipico che
accada quando ci si abbandoni, dopo lunga sopportazione, alla rabbia
verbale. In queste pagine, infatti, il discorso non segue un ordine
logico-cronolgico ma si apre e si dirama in modo caotico, seppur non
privo, di tanto in tanto, di lucidi snodi. Sarà poi nel prosieguo
del romanzo, specie nei capitoli centrali, che Bianciardi
ridistribuirà, ricollocandoli ordinatamente, i nomi i fatti, i
luoghi, in una narrazione più lineare seppur non meno aggressiva.
Andiamo dunque a vedere
alcune delle notizie anticipate in questi capitoli d'apertura.
Casa mia è sempre stata
aperta a tutti, e prima di
avere una casa ho accettato persino di stare in
subaffitto dai Fisslinger e lo so io cosa mi hanno
fatto patire, quei due , tedeschi nell'animo come
erano, loro sud-tirolesi (p. 29).
avere una casa ho accettato persino di stare in
subaffitto dai Fisslinger e lo so io cosa mi hanno
fatto patire, quei due , tedeschi nell'animo come
erano, loro sud-tirolesi (p. 29).
Il lettore viene informato
in queste poche righe di una «casa mia», che è quella stessa dive
il B-autore ora, 1962, vive e scrive questo romanzo. Ma chi legge
viene pure a sapere che prima di quella «casa mia» vi era stata la
convivenza con la famiglia altoatesina dei Fisslinger; una convivenza
difficile che si interromperà bruscamente. Nelle pagine precedenti,
intanto, l'Io narrante aveva già raccontato, esordendo con una
profonda digressione etimologica su Brera, della sua vita in quel
quartiere. Ecco, dunque, che il tracciato Brera —> Fisslinger —>
«casa mia», esposto in ordine cronologico nei capitoli centrali, è
già qui tutto anticipato. Ma ancora:
L'amicizia di due uomini è
più forte di una
preghiera, sì, ma quando compare Anna e sorride nel
sole, allora già in quell'amicizia qualcosa si è
incrinata, perché io sono di Anna e Carlone... sa che
domani Anna sarà più forte di lui... Anna binda nel
sole e grande e chiara. Io le stringo il braccio sotto il
mio, fiero perché Anna è bella e tutti sappiano che è
mia, soltanto mia (p. 25).
preghiera, sì, ma quando compare Anna e sorride nel
sole, allora già in quell'amicizia qualcosa si è
incrinata, perché io sono di Anna e Carlone... sa che
domani Anna sarà più forte di lui... Anna binda nel
sole e grande e chiara. Io le stringo il braccio sotto il
mio, fiero perché Anna è bella e tutti sappiano che è
mia, soltanto mia (p. 25).
Anna, che sarà poi la
«compagna di barella», è già tutta in queste poche frasi che
ritornano, quasi testualmente, nei capitoli centrali:
ero orgoglioso di sfilare
davanti alla gente eccitata
con sotto braccio una bella figliola così. Me la
guardavano tutti: aveva i capelli biondi annodati
sulla nuca, e teneva alto il viso piccolo e chiaro...
sembravamo proprio una coppia, una bella coppia, e
io fui ancora orgoglioso, di avere con me Anna, e
che tutti me la guardassero (p. 60).
con sotto braccio una bella figliola così. Me la
guardavano tutti: aveva i capelli biondi annodati
sulla nuca, e teneva alto il viso piccolo e chiaro...
sembravamo proprio una coppia, una bella coppia, e
io fui ancora orgoglioso, di avere con me Anna, e
che tutti me la guardassero (p. 60).
La figura di Anna, qui, nel
capitolo III, non è che una delle tante notizie e divagazioni che
Bianciardi riversa sul lettore associando idee e immagini liberamente
perché, come dice l'Io narrante, «un discorso tira l'altro e si
arriva...» (p. 24): si arriva, partendo dal «moro», metafora
dell'«anima nera» del padrone, «il padrone moro Timber Jack» (p.
30) appunto, a parlare dell'indole antirazzista dell'Io narrante
stesso, dando subito al lettore un assaggio della violenza satirica
con cui, più oltre, verrà dissacrata la categoria dei «ragionieri»:
colonna portante del miracolo economico italiano e, nella
fattispecie, milanese.
Numerosissime sono dunque
le informazioni disperse nel groviglio di questi primi capitoli:
nomi, fatti, luoghi che ritorneranno puntualmente nello svolgimento
della narrazione. In questo magma di notizie, ve ne sono alcune,
però, che anziché anticipare il "futuro", ragguagliano il
lettore circa il "passato": spiegano, cioè, i motivi per
cui l'Io narrante risiede da alcuni anni a Milano. Ecco allora saltar
fuori per intero la tragedia della miniera di Montemassi, presso
Montecatini val di Cecina che pochi conoscono «e infatti molti
preferiscono credere che il paese [da cui prende il nome l'industria
del «torracchione»] sia l'altro, l'omonimo, il famoso, dove da
almeno un secolo i benestanti vanno a purgarsi» (p. 33): Montecatini
Terme, appunto. Nel 1956, Bianciardi, in collaborazione con Carlo
Cassola, aveva pubblicato un'indagine sui minatori della Maremma.1.
Gli erano note, pertanto, le gravi responsabilità della Montecatini
in relazione alla morte dei quarantatré minatori, alcuni dei quali
suoi amici. Con competenza e sarcasmo, questa verità ritorna ora
nelle pagine del romanzo, dove un riso satanico e demitizzante,
carico di indignazione morale, mette alla berlina i tentativi, allora
in voga «per... una libidine neocapitalistica» dei padroni, di dare
all'industria un volto umano, svelandone l'ipocrisia di fondo. Le
«umane relazioni», agli occhi di chi narra, altro non sono che un
facsimile dei reali rapporti umani: perché «qui non era storia di
rapporti fra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra
uomo, giorno e tonnellata» (p. 36).
Anche la polemica, come già
gli elementi della storia incontrati nella prima parte del romanzo,
ritorna poi nei capitoli centrali. Contro la menzogna dei padroni:
Come qualcuno forse
ricorda, in quegli anni si
parlava moltissimo di automazione, di produttività,
di seconda rivoluzione industriale e di umane
relazioni. Pareva che tutti i rapporti, produttivi e
umani, dovessero cambiare, mentre poi hanno
ricominciato – e forse non hanno mai smesso – a
prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci
nel culo (p. 127);
parlava moltissimo di automazione, di produttività,
di seconda rivoluzione industriale e di umane
relazioni. Pareva che tutti i rapporti, produttivi e
umani, dovessero cambiare, mentre poi hanno
ricominciato – e forse non hanno mai smesso – a
prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci
nel culo (p. 127);
oppure più
specificatamente contro la Montecatini, di cui, tuttavia, non viene
mai rivelato il nome ma solo alluso:
Poiché l'impresa non era
abbastanza redditizia, pur
di chiuderla hanno ammazzato quarantatré amici
tuoi, e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi
e apre a sinistra (p.157).
di chiuderla hanno ammazzato quarantatré amici
tuoi, e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi
e apre a sinistra (p.157).
Se l'andamento del
discorso, come visto fin qui, si è svolto nella parvenza d'una
chiacchierata, dove «un discorso tira l'altro»; vi sono tuttavia
alcuni snodi che definirei lucidi, controllati2.
Sono quei momenti in cui la narrazione, che fluisce altrimenti
scorrendo sciolta da un argomento all'altro, improvvisamente
s'arresta per ripartire quindi bruscamente in altra direzione .Un
esempio lo troviamo al termine della lunga descrizione di vita
bohémienne nel quartiere di Brera. Sentiamo l'attacco:
Non fu così, certamente,
ma così avrei potuto
pensare e scrivere, dieci anni or sono, la serata in
casa del pittore con Ettorino e Carlone... (p. 26);
pensare e scrivere, dieci anni or sono, la serata in
casa del pittore con Ettorino e Carlone... (p. 26);
uno stacco netto,
evidenziato anche tipograficamente dalla doppia spaziatura, che
introduce a un'ampia parentesi metaletteraria. Di rilevante
importanza è il secondo di questi snodi controllati. Innanzitutto
perché si presenta nella forma del riepilogo, consentendo così al
lettore di fare il punto della situazione, dopo che trenta pagine di
informazioni disordinate l'hanno investito3.
Ma quel che più conta è l'introduzione del tema della «missione»
che qui, seppur non svelata nei dettagli, dà modo all'Io narrante di
recuperare il dramma di Montemassi:
io non ero venuto su non
dico per raccomandarmi ai
mori, ma nemmeno per contare le dita ai
bibliotecari... Non ero venuto su per documentarmi
sulla rotacizzazione della dentale intervocalica...
Non ero venuto su per guardare l'osso sacro di
Carlone...Non ero venuto su per fare il verso al
Querouaques... non ero venuto su per offrire i miei
servigi al moro...La missione mia era ben altra (pp.
30-31).4
mori, ma nemmeno per contare le dita ai
bibliotecari... Non ero venuto su per documentarmi
sulla rotacizzazione della dentale intervocalica...
Non ero venuto su per guardare l'osso sacro di
Carlone...Non ero venuto su per fare il verso al
Querouaques... non ero venuto su per offrire i miei
servigi al moro...La missione mia era ben altra (pp.
30-31).4
E infine il terzo di questi
snodi:
Ora appunto io venivo ogni
giorno a guardare il
torracchione di vetro e di cemento... La missione
mia...era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e,
in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le
circa duemila persone che ci lavoravano... (p. 41).
torracchione di vetro e di cemento... La missione
mia...era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e,
in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le
circa duemila persone che ci lavoravano... (p. 41).
Anche per la tripartizione
del romanzo si può parlare di snodi narrativi. Questi per la
collocazione e il contenuto, assumono il valore d'un vero e proprio
segnale. Segnano e segnalano, infatti, il confine tra la prima, la
seconda e la terza parte. Non solo: in entrambi i casi, questi snodi
si collocano al termine di progetti velleitari o deliri utopici,
quando l'autore, cioè, raggiunto l'apice della tensione
fantastico-rivoluzionaria, sembra improvvisamente accorgersi che
purtroppo «il mondo va così. Cioè male. Ma io non ci posso fare
nulla»5.
Ma intanto bisognava
guadagnarsi lo stipendio (pp.
43-44);
43-44);
è la frase che il lettore
trova proprio a ridosso del progetto di far esplodere col grisù il
«torracchione» della Montecatini, in chiusura della prima parte del
romanzo. Chiude la seconda:
Nell'attesa che ciò
avvenga, e mentre vado
elaborando le linee teoriche di questo mio
neocristianesimo a sfondo disattivistico e
copulatorio, io debbo difendermi e sopravvivere (p.
163).6
elaborando le linee teoriche di questo mio
neocristianesimo a sfondo disattivistico e
copulatorio, io debbo difendermi e sopravvivere (p.
163).6
Dopo la costatazione amara
espressa in queste frasi, per l'autore è sempre un ricominciare
daccapo. La prima volta, ricomincia a narrare, ordinatamente e
dettagliatamente, la storia che, scompostamente, aveva già esposto
nella prima parte: Bianciardi ci racconta così la sua «diseducazione
sentimentale»7.
Quindi, eccolo nuovamente daccapo a ridistribuire, per la terza
volta, gli affanni di questa «vita agra». Non più, ora, nell'arco
ampio del suo decennio milanese, ma nel giro stretto delle
ventiquattro ore, della giornata d'un traduttore.
2
Naturalmente, è quasi superfluo rammentarlo, nulla è lasciato al
caso. Voglio dire che l'andamento sbrigliato, messo in luce in
questa breve analisi, è frutto di una precisa volontà dell'autore.
E’ solo per comodità, dunque, che utilizzo il termine
"controllato": per mettere in risalto, cioè, le diversità
che pur esistono tra ciò che si è fin qui visto e le parti che mi
accingo ora ad analizzare.
3
Il riepilogo, ricorrente nella Vita
agra,
è in Bianciardi un accorgimento tecnico-stilistico che svolge
funzioni diverse. Intanto è utile al lettore, come visto; mentre
dalla prospettiva dell'Io narrante, si presenta come un resoconto
amaro, espressione dell'impotenza davanti agli eventi del mondo.
Altre volte assume un tono ironico e va a pungere il bersaglio di
turno. Sempre, funge da snodo narrativo. Ne sono alcuni esempi le
pagine 30-31, 53, 55, 73, 156-157.
4
Corsivo mio.
5
M. Terrosi, Bianciardi
com'era (Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano),
Grosseto, Il paese reale, 1974, p. 43.
6
Corsivo mio.
7
Così scrive Bianciardi in una lettera de 26 aprile 1961: «Ho in
animo di buttar giù una grossa pisciata in prima persona sulla
avventura milanese, sul miracolo italiano, sulla diseducazione
sentimentale che è la sorte nostra d'oggi». Poi, l'8 agosto 1961,
in un'altra lettera, scriverà: «E il prossimo libro che scrivo ti
giuro che ce le metto tutte, e ti faccio la storia della
diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del "Miracolo"»
(M. Terrosi,Bianciardi
com'era
cit., pp. 23 e 25; virgolette dell'autore).
3.
La «DISEDUCAZIONE SENTIMENTALE».
(Analisi
della seconda parte del romanzo: da p. 44 del cap. III a p. 163 del
cap. X)
Nella prima parte del
romanzo, come si è tentato di dimostrare, c'è sovrapposizione tra
il B-autore e il B-protagonista. E’ dunque il Bianciardi disilluso
chi narra, il Bianciardi del 1962, quello che ha già sbattuto la
faccia contro il muro liscio dell'indifferenza milanese; quel muro di
«omertà, cricca, mafia, società d'affari»1
che ha fatto a pezzi il suo sogno giovanile «di star della parte dei
badilanti e dei minatori», perché «se in qualche modo la mia poca
cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò
buona questa cultura»2.
Bianciardi credeva dunque nella possibilità di un rinnovamento
sociale realizzabile con il contributo anche della cultura . Sono gli
anni del secondo dopoguerra, anni in cui la classe intellettuale,
uscita vincitrice dalla Resistenza, s'era illusa di viver un momento
mitico: la fondazione di una nuova società, di una nuova umanità.
Ma quest’entusiasmo si reggeva su un troppo facile ottimismo che di
lì a qualche anno avrebbe lasciato spazio solo all'amarezza:
Primi cirri di questa
amarezza saranno Il
lavoro culturale,
L'
integrazione,
romanzi-pamphlet carichi d'un'ironia spietata che nessun colpo
risparmierà a questa generazione di vincitori e sconfitti a un
tempo. Ma la vera tempesta scoppierà nel 1962, dopo dieci anni circa
d'incubazione: La
vita agra.
Già, perché ora Bianciardi sa che sarebbe da sciocco, da
incosciente, continuare a credere, o solo sperare, in una cultura
capace di «giovare» al lavoro e all'esistenza dei badilanti, dei
muratori, dei minatori.
Infatti, la cultura del
miracolo economico è quella dei Fernape, di quegli intellettuali che
vivono nel limbo « d'un nobile castello, sette volte cerchiato
d'alte mura»4.
Lo si chiami muro o fossato, resta il fatto che tra il ceto
intellettuale e il popolo erano tornate quell'incomunicabilità,
quell'incomprensione – e forse anche diffidenza – che pure il
momento magico della Resistenza aveva eliminato. Non c'è da stupirsi
allora, se per questi "fernapizzati" il crollo della
miniera sotto Montemassi con i suoi quarantatré morti non è una
tragedia bensì un «buon tema». La tragedia sta, semmai, nel
«pericolo di cadere nel solito neorealismo» (p. 45) provocando
un’involuzione culturale, un processo antistorico. Guai a
ostacolare il «passaggio dal neorealismo al realismo, dalla cronaca
alla storia» (p. 46).
Infatti, la cultura del
miracolo italiano è quella della stampa che vive solo nella notizia
quotidiana per cui, anche «per il settore sociologico» quella di
Ribolla è ormai « invecchiata come notizia. A meno che non si trovi
un aggancio di attualità, non so... un nuovo scoppio, un'agitazione»
(p. 44).
Infatti, la cultura del
miracolo economico italiano è quella che, in seno alla sinistra, si
conforma ai princìpi politici esposti dalla togliattizzata vedova
Viganò: «Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui luoghi di
lavoro, ciascuno al suo posto»; e chi sgarra, chi non è fedele alla
linea, è un «opportunista», è un «deviazionista», uno che vuol
affermare una propria «linea individuale, una ... ideologia
personale, contro quella del partito» (p. 51).
C'era dunque da stupirsi?
Bianciardi, che crede nel modello dell'intellettuale organico;
Bianciardi che per nulla è "fernapizzato", si stupisce
eccome. Anzi: è lo stupore una sorta di congegno stilistico che il
B-autore applica agli occhi dell'Io narrante, generando quell'effetto
di straniamento che realizza una visione ridicola e drammatica del
contesto sociale. Così, tra spunti esilaranti e spigoli d'amarezza,
il lettore assiste all'iniziazione, anzi alla «diseducazione
sentimentale» che in questi sette capitoli centrali trasformerà il
B-protagonista, ingenuo e volenteroso, nel B-autore: uomo disilluso e
disperato.
La narrazione di questo
"viaggio" si dipana rispettando l'ordine logico-cronologico
degli eventi: è in questa dimensione temporale che si muove il
B-protagonista. Tuttavia, l'andamento logico-cronologico è
ripetutamente spezzato dell'irrompere della dimensione temporale del
B-autore, collocato, come sappiamo, nel 1962. Alle due diverse
dimensioni temporali corrispondono due diversi Io narrante, ciascuno
con il proprio carico d'informazione e relative prospettive sul
reale. Ora, trattandosi d'un romanzo ad alto contenuto
autobiografico, la variabile "informazione" risulta
informata dalla porzione di esistenza realmente esperita del
B-storico: cioè dal Bianciardi in carne e ossa e psicologia5.
L'oscillazione dell'Io narrante – ora nella dimensione temporale
del B-autore, ora in quella del B-protagonista – si coglie proprio
nei repentini mutamenti di prospettiva (giudizi sul mondo, illusioni,
speranze via via deluse, eccetera) strettamente vincolata alla
quantità d'informazione/esperienza posseduta dell'Io narrante
stesso. Avremo pertanto:
- narratore >
personaggio; quando l'Io narrante si trova nella dimensione
tempo/informazione del B-autore, il cui carico di esperienza è fisso
al 1962;
- narratore = personaggio;
quando l'Io narrante è situato nella dimensione tempo/informazione
del B-protagonista, con un carico di esperienza che cresce in
proporzione allo svolgersi della narrazione dei capitoli centrali,
fino a coincidere col B-autore del 1962. Lo scarto che si realizza
tra le due diverse prospettive/quantità d'informazione, permette al
B-autore-1962 di prendere le distanze dal B-protagonista e, quindi,
di ironizzare sul se stesso del passato. Capita sovente di assistere
a situazioni tipo questa:
No, per intendere la
città, per cogliere al di sotto
della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui
favoleggiavano, occorreva – adesso lo capivo – fare
la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come
loro, soffrire come loro. Far vita di quartiere...
Adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far
esplodere io da solo... la cittadella del sopruso, della
piccozza e dell'alambicco. No, bisognava allearsi
con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla,
amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.
della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui
favoleggiavano, occorreva – adesso lo capivo – fare
la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come
loro, soffrire come loro. Far vita di quartiere...
Adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far
esplodere io da solo... la cittadella del sopruso, della
piccozza e dell'alambicco. No, bisognava allearsi
con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla,
amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.
Perciò io ero contento di
abitare in questa periferia
popolana e laboriosa, di vivere in casa con una
coppia tipica di immigrati da una zona
sottosviluppata, l'Alto Adige o Tirolo meridionale
che dir si voglia, come erano appunto i coniugi
Fisslinger. I quali innanzi tutto fabbricarono con
quattro vecchie tavole due stipetti da tenere
nell'ingresso e riporci le scarpe, entrando da fuori.
Perché entrando da fuori, se non volevamo sporcare
le mattonelle lucidate a cera, conveniva togliersi le
scarpe e infilare le ciabatte, che lì all'Upim si
trovavano, da uomo e da donna, per poche centinaia
di lire (pp. 94-95)6.
popolana e laboriosa, di vivere in casa con una
coppia tipica di immigrati da una zona
sottosviluppata, l'Alto Adige o Tirolo meridionale
che dir si voglia, come erano appunto i coniugi
Fisslinger. I quali innanzi tutto fabbricarono con
quattro vecchie tavole due stipetti da tenere
nell'ingresso e riporci le scarpe, entrando da fuori.
Perché entrando da fuori, se non volevamo sporcare
le mattonelle lucidate a cera, conveniva togliersi le
scarpe e infilare le ciabatte, che lì all'Upim si
trovavano, da uomo e da donna, per poche centinaia
di lire (pp. 94-95)6.
Leggendo con attenzione
questo passo, si possono notare diversi gradi di
coscienza-informazione, e quindi di tempo-esperienza, del
protagonista: mutamenti, cioè, che si realizzano esclusivamente nel
piano del B-protagonista.Il doppio sintagma «adesso capivo»,
infatti, segnala che il B-protagonista, coincidente con l'Io
narrante, è, nel suo viaggio esperienziale verso il B-autore, a uno
stadio – temporale, di coscienza e di quantità di informazione
posseduta – più avanzato rispetto al B-protagonista –
velleitario bombarolo – delle pagine precedenti. Tutto questo lo
vedremo comunque meglio più oltre, quando analizzerò le tappe di
questa «diseducazione sentimentale». Per ora, ci interessa sapere
che chi sta parlando è il B-protagonista. Dunque a lui va attribuito
l'Io narrante che dice: «Perciò io ero contento... ecc.». Ma è
proprio adesso che, maliziosamente, la voce del narratore comincia a
calzare progressivamente quest'aria di felicità familiare, fino a
farle assumere, per eccesso di serietà, i colori propri della
parodia. Succede che il B-autore, dall'alto della sua
esperienza-1962, subentra al B-protagonista, cronologicamente situato
in posizione più arretrata, portando con sé una diversa prospettiva
di giudizio sul reale. Non si dimentichi infatti che nel secondo
capitolo, il B-autore si era già lamentato di questa convivenza:
ho accettato persino di
stare in subaffitto dai
Fisslinger e lo so io che cosa mi hanno fatto patire,
quei due... (p. 29).
Fisslinger e lo so io che cosa mi hanno fatto patire,
quei due... (p. 29).
Insomma: il B-protagonista,
qui, crede davvero che «per intendere la città... [occorra] fare la
vita grigia dei suoi grigi abitatori», e s'illude pertanto che «di
qui sarebbe nata la solidarietà... contro i torracchioni del centro,
contro i padroni mori e timbergecchi» (p.95). Ma a tutto ciò, per
esperienza, il B-autore non crede più.
In altri casi, i diversi
piani temporali, non sfumano uno nell'altro: si assiste allora
all'irrompere deciso del B-autore. Tipiche, in questo senso, sono le
divagazioni di carattere, diciamo così, socio-politico, profferite
quasi sempre, per l'appunto, dal B-autore. Si veda la lunga
riflessione sul coito che, ridotto a mero «ideogramma», è
considerato la causa prima della noia, della spersonalizzazione,
«dell'attivismo vacuo... ateleologico della civiltà... Questo vuole
la classe dirigente...muoversi all'infinito...Ma io so che la noia
finirebbe nell'attimo in cui si ristabilisse la natura veridica del
coito. Lo so, finirebbe anche la civiltà moderna» (pp. 63-64-65). A
questo punto, terminata la riflessione, l'Io narrante dichiara:
Son cose queste che
soltanto adesso,
io, e con
visibile sforzo, riesco a mettere sulla carta ed
esprimere a parole, ma le scoprimmo vivendole,
Anna e io... (p. 67)7.
visibile sforzo, riesco a mettere sulla carta ed
esprimere a parole, ma le scoprimmo vivendole,
Anna e io... (p. 67)7.
L'avverbio di tempo
«adesso» indica qui l'istante stesso della stesura della Vita
agra,
cioè il 1962. Ma vien detto pure, tuttavia, che vi è stato un
tragitto esperienziale («le scoprimmo vivendole») per giungere al
romanzo, cioè alla chiara presa di coscienza della propria
esperienza. E’ dunque al Bianciardi che scrive, e quindi
all'autore, che va riferito l'Io narrante. E questo perché,
l'avverbio «adesso», è molto più avanti negli anni rispetto al
sintagma «adesso capivo» legato, come sopra abbiamo visto, al
B-protagonista e perciò necessariamente indicante un tempo
anteriore.
Anche nella seconda parte
del romanzo, come già nella prima, vi è una digressione di
carattere metaletterario:
Lo so, direte che questa è
la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un'ostrica malata
che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla... E’ vero, e di
mio ci aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e
mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri
che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me
sembrava che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa
storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli
studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno
individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano (p.
156).
E’ quasi superfluo
precisare che l'Io narrante e il B-autore sono qui sovrapposti.
Tuttavia, a sciogliere ogni residuo dubbio, c'è sempre il periodo
conclusivo dell'articolo che Bianciardi scrisse per la rubrica
Nascita di
uomini democratici
nella rivista di Luigi Russo, nel 1952, dove i riscontri sono quasi
testuali:
Non mi pare di aver detto
grandi cose,... so bene di essere, senza modestia, un uomo mediocre,
eguale, né migliore né peggiore di centomila altri come me. Ma
appunto per questo io credo che la mia testimonianza abbia qualche
interesse, perché è tipica della mia generazione8;
una generazione, questa,
che ora, 1962, è completamente avvinta al neocapitalismo, come La
vita agra testimonia.
Si è visto fin qui che gli
eventi narrati nella parte centrale si susseguono, almeno nelle
grandi linee (ad esempio: vita a Brera —>
casa dei Fisslinger —>
«casa mia») rispettando l'ordine logico-cronologico. Allo stesso
modo, il lettore assiste al realizzarsi della «diseducazione
sentimentale» che avviene per tappe:
- l'Io narrante è a Milano
per far saltare in aria la Montecatini;
- incontra la realtà
culturale degli "intellettuali-ragionieri", simbolicamente
incarnati nel dottor Fernape;
- incontra la politica di
sinistra, emblematicamente rappresentata dalla vedova Viganò;
- ha un fugace contatto con
gli operai "invisibili" di Milano; difficilmente
incontrabili da chi lavora in redazione; metafora della reale
frattura tra intellighenzia e proletariato. Ma simbolo anche, questi
operai grigi, «con gli occhi gonfi, in marcia spalla a spalla», che
«sfilano a passi lesti», assonnati e frettolosi, «senza voltare
gli occhi attorno... intabardati, con una sciarpa di lana al collo, o
il passamontagna calato sugli occhi,... uomini grigi... che non
rallentano la marcia... e continuano ad arrancare» (p. 54); simbolo,
dicevo, del lavoro alienato e alienante della società industriale;
- incontra la vita
aziendale, tutta fondata sui «rapporti di forza con cui fare i
conti» (p.69); un lavoro, anche questo, non meno alienato e
alienante di quello operaio;
- incontra i «grigi
abitatori» di Milano: «Adesso capivo... bisognava allearsi con la
folla» (p.95), e l'Io comprende la velleità del suo progetto
dinamitardo. Ma ben presto la «folla» si rivelerà per quel che
veramente è: «non... uomini, ma pesci,... ectoplasmi, baccelloni di
ultracorpo» (p. 116), e, ancora, «larve», «fantasmi»;
- incontra l'egoismo e
l'indifferenza quotidiani, simbolicamente dati nell'episodio
dell'ubriaco9,
che porteranno l'Io a esclamare: «Tutti badavano ai fatti loro...
Ingenuo ero io a meravigliarmene... Il mondo è fatto in questo modo,
non l'avevo ancora capito?» (p. 103);
- incontra la morte: prima
negli amici suicidi, che i colleghi «scancellano», e poi nell'amico
Enzo, che non aveva il «vizio assurdo... no, Enzo voleva campare,
conoscere gente, andarci d'accordo... e invece... morì» (pp.
152-153-154);
- il viaggio è finito e
l'Io dichiara: «Nel frattempo sono diventato anch'io come gli altri,
non ho tempo per i guai del prossimo» (p.154).
La «diseducazione
sentimentale» è dunque compiuta; il B-protagonista si è
ricongiunto col B-autore. Da cui, per sillogismo, si dovrebbe
concludere che il B-1962, il B-storico, l'autore insomma del romanzo,
sarebbe, a questa altezza cronologica, un perfetto milanese. Ma
davvero abbiamo di fronte un integrato? un ectoplasma? L'Io, giunto a
Milano per adempiere alla «missione» tacitamente affidatagli da
Tacconi Otello, si è finalmente arreso al «morso» della città?
Questo sostiene la gran parte dei critici, suffragata, a quanto pare,
dalle parole profferite dallo stesso B-autore in una delle sue
ripetute irruzioni, parole rivolte proprio a Tacconi Otello:
Tacconi, lassù mi hanno
ridotto che a fatica mi difendo,... la forza che ho mi basta appena
per non farmi mangiare dalle formiche,...la vita è agra, lassù (pp.
158-159).
Non v'è dubbio, certo,
sulla stanchezza, la spossatezza di quest'ultimo Bianciardi. E
tuttavia non si può parlare di lui come di un uomo integrato nella
vita del boom
economico. Non lo si può eguagliare ai «ragionieri» milanesi. Di
sicuro, gli è chiaro che la lotta, sia attraverso «il lavoro
culturale» che la dinamite, purtroppo non serve a mutare granché il
sistema:
Con trenta omicidi ben
pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia.
Ma il guaio è dopo,
perché in quel vuoto si ficcherebbero automaticamente altri
specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il
loro mestiere, e si sono specializzati sugli stessi libri di quelli
che dirigono adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di
ora, e farebbero le stesse cose... E la gente continuerebbe a
scarpinare, a tafanarsi, più di prima, a dannarsi l'anima. No,
Tacconi, ora so che non basterebbe sganasciare la dirigenza
politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione
deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore
homine (pp.159-160).
Eppure, malgrado queste
parole, se il protagonista si fosse realmente arreso, noi, oggi, non
lo avremmo mai saputo: come nulla sappiamo delle altre milioni di
anonime «formiche» milanesi. E’ proprio la posizione di
non-integrato, che ha generato la prospettiva straniata con cui
Bianciardi ha continuato, nonostante tutto, a osservare, con occhio
spietato il mondo intorno a lui. Senza questa, il B-autore non
sarebbe mai esistito e con lui il B-protagonista e La
vita agra.
Se si fosse arreso, non avrebbe scritto.
5
«... la storia dell'ubriaco è vera... Tranne il particolare della
morte letta da me sul giornale... nel libro sono pochissime le cose
non vere. Non è vero per esempio la storia di me che faccio una
buca per la strada e il comune mi paga la giornata. Non è vero che
la questura mi tenne dentro tutta la notte: mi rilasciarono
immediatamente. Nient'altro, credo. Tutto il resto è vero, la mia
vita a Milano è stata così, anche il mio stato d'animo era
quello»; M. Terrosi, Bianciardi
com'era
cit, p. 38-39, lettera del 18 ottobre 1962. Certo, non bisogna
dimenticare che si è comunque di fronte a un romanzo, non a
un’autobiografia, e che quindi è pur sempre un'invenzione
artistica. Tuttavia, ai fini della mia ricerca, ciò non influisce.
6
Corsivo mio.
7
Corsivo mio.
9
Episodio, tra l'altro, vero. Cfr. n. 16.
4. LA GIORNATA D'UN
TRADUTTORE.
(Analisi della terza parte
del romanzo: da p. 163 del cap. X e cap.
XI)
L'oscillazione
dell'Io narrante, già incontrata all'interno della seconda parte, si
verifica anche nell'arco intero del romanzo. Anzi, è in virtù della
diversa coincidenza dell'Io narrante, ora col B-autore ora col
B-protagonista, e la conseguente quantità d'informazione da lui
posseduta in relazione alla collocazione temporale, a determinarne la
tripartizione.
-Parte
I: chi
narra possiede tutti gli elementi della storia e della polemica: ha,
cioè, il massimo carico d'informazioni. L'Io narrante è infatti il
B-autore e la sua prospettiva si sovrappone a quella del
B-protagonista. Lo schema sarà perciò:
B-autore
—>
Io narrante —>
B-protagonista1
-Parte
II: l'Io
narrante oscilla tra la dimensione temporale del B-autore, fissa al
1962 col relativo carico d'informazione e conseguente prospettiva, e
la dimensione temporale del B-protagonista: dimensione non fissa,
bensì in moto verso il B-1962. Lo schema di tali oscillazioni sarà
pertanto:
mentre la direzione del
flusso informativo sarà:
-Parte
III: chi
narra è il B-protagonista che, compiuta la «diseducazione
sentimentale», coincide nuovamente col B-autore-1962, condividendone
il carico d'informazioni :
B-autore
—>
Io narrante <—
B-protagonista
Questa
terza parte è scandita da segnali orari, dati talvolta col richiamo
esplicito alle ore – «sono le dieci e un quarto», «entro le
undici», «dopo le tre», «verso le quattro», ecc... (pp. 174,
176, 182 e 185); talaltra con avverbi di tempo o segmenti sintattici
del tipo: «ogni mattina», «al pasto della sera», «finita la
cena», «lo porta giù», ecc... (pp.163, 189, 195 e 196). E’
proprio un segnale temporale ad aprire la narrazione di questa
giornata tipo d'un traduttore free-lance:
Ogni mattina mi desta il
filo di luce che trapela
dalle stecche delle tapparelle, e sotto il
ringhio
della città che ha cominciato a mordere (p.
163);
poi, poche righe più
sotto:
i tafanatori delle nove e
dieci, nove e un quarto,
sono i più pungenti, i più agguerriti, i
più
tossici (p. 163).
Agro
subito, il vivere; fin dal risveglio, descritto nel dettaglio:
mutande, calzoni, scarpe, calze, la camicia di lana, la giacca, le
sigarette; tutto raccattato al buio, per non svegliare Anna che
«dorme incosciente». Avanti così fino all'ascensore, poi:
Appena fuori c'è il
traffico che mi investe
(p.164);
quel
«traffico astioso» di cui l'Io narrante seguiterà a parlare
dimenticando il filo principale del discorso, che verrà ripreso
solamente una pagina più avanti con una frase che diventerà, in
queste pagine, una sorta di refrain:
Ci sono due passaggi
zebrati, dalla porta di
casa mia all'edicola dei giornali (p. 165).
E’ la quotidiana
passeggiata mattutina da casa al bar, passando per l'edicola, e
ritorno. Una passeggiata che, almeno narrativamente, è ritardata da
insistenti digressioni: dapprima dirette a sfatare il falso mito
dell'auto quale incremento della libertà dell'individuo; poi
trasformate in una invettiva rancorosa contro i milanesi, fautori
d'una nebbia che in realtà è:
una fumigazione rabbiosa,
una flatulenza di
uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo
di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare
delle segretarie,
delle puttane, dei
rappresentanti, dei grafici, del PRM, delle
stenodattilo, è fiato di denti guasti, di stomachi
ulcerati, di
budella intasate, di sfinteri stitici, è
fetore di ascelle
deodorate, di sorche sfitte, di
bischeri disoccupati (p. 167).
L'analisi
meteorologica va avanti per molte righe ancora, quindi si ritorna al
discorso lasciato in sospeso:
Dal portone di casa mia
all'edicola, dicevo, ci
sono due passaggi zebrati pericolosi (p.168);
ma è solo una falsa
partenza perché ecco pronto un altro stop, e si cambia
immediatamente binario per dirigersi sugli incidenti stradali e di
qui nei meandri d'un curioso aneddoto in prima persona, in relazione
ai lavori stradali. poi, di nuovo:
Il doppio passaggio zebrato
– viale e
controviale – è pericoloso (p. 172).
Nulla
da fare: una fermata ancora. Ecco infatti pararsi davanti «uomini e
donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla,
ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il
bottegone». E’ il supermercato, dove l'Io narrante si ferma a
osservare quel «branco» di « donnette ipnotizzate» ed
eterodirette che tutto acquista e «paga automaticamente» (pp.
170-171). Poi scatta il ricordo del «bottegone» di provincia,
finché, per la quarta volta vien detto del
passaggio zebrato... doppio
e pericoloso, viale
e controviale dal cancello di casa mia
all'edicola dei giornali (p. 172);
e stavolta, finalmente, si
parte davvero.
Soventi sono pure le
irruzioni dei brani di altri testi. Non segnalati tipograficamente,
questi corpi estranei non sono immediatamente distinguibili, per cui,
quando il lettore vi si imbatte, prosegue per qualche riga ancora la
lettura, poi avviene il corto circuito. Allora è costretto a
fermarsi, tornare indietro di qualche riga e quindi ripartire. Un
esempio:
Ogni
mattina
io riattacco come se avessi
smesso dieci minuti prima, perché il
cervello in
realtà non si è mai arrestato, nemmeno
dormendo: il
risveglio, il caffè, la marcetta fino
ai cartelloni del cinema, ma
intanto, quasi senza
che me ne accorga, ho continuato a pensare.
Mercoledì,
il destarsi della città nelle retrovie
francesi, una quarantina di chilometri dietro il
fronte nella
primavera del diciotto. Lo
sbigottimento, la folla che converge verso
la
Place de Ville,... (p. 179)2.
A
ingannare il lettore concorrono alcuni elementi. Innanzitutto il
riferimento temporale a «mercoledì», che induce l'aspettativa
verso una divagazione sul tipo di quelle incontrate nelle pagine
immediatamente precedenti:
il lunedì la loro ira è
alacre e scattante, stanca e
inviperita il sabato. La domenica non li
vedi, li
senti però, dentro le case, indaffarati coi
rubinetti, le
vasche da bagno, ... (p. 164);
e poi il verbo, quel
«destarsi», che richiama subito alla mente il sintagma «ogni
mattina», letto qualche riga più sopra. Neppure «città» e
«retrovie» possono allarmare chi legge sull'imminente tranello,
tutt'altro. Insomma, la frase «mercoledì, il destarsi della città
nelle retrovie» volge l'aspettativa del lettore verso una
digressione che descriva un tipico mercoledì mattina nella periferia
della città: Milano, ovviamente. Ma una serie di elementi
chiaramente inconciliabili con questa aspettativa – «francesi»,
«il fronte... del diciotto», «Place de Ville», ecc... –
costringono ben presto il lettore a un repentino dietro-front. Casi
del genere s'incontrano in tutto il romanzo, non solo in questa terza
parte. Con essi, l'autore esprime narrativamente la nevrosi del
traduttore: la sua nevrosi. Sono infatti brani tratti da libri
tradotti realmente da Bianciardi; il quale parla di questa nevrosi
anche in una lettera del 1964:
Traducevo
a ritmo infernale decine e decine di
libri; ...incubi notturni (il
più funesto era così:
dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a
tradurre quel che avevo sognato...)3.
Ma
già in altre pagine del romanzo:
Ciascuno di costoro [gli
autori tradotti] m'ha
portato via un pezzo di fegato, e tutti insieme
mi hanno dannato l'anima, mi hanno stravolto
persino l'infanzia (p.
139);
ed ecco lo stravolgimento
intaccare non solo la memoria, ma la narrazione stessa,
trasformandosi in stravolgimento verbale:
Quando
non riesco a prendere sonno, penso alle
mie vacanze, bambino, su a
Streetrock, o nei
prati attorno a Plaincastle, a St. Flower, ad
Archback, a Chestnutplain. Ripenso ai lunghi
viaggi sulle strade
verso Download, Hazely,
Copperhill, Meadows, Bouldershill, Gaspings,
e
poi il ritorno, dalla parte del camposanto di
Scrub, nella grande
pianura open to winds and
to strangers. Then
from everywhere crowds had
rushed to this newly-found Mecca: black
dealers from the South, carryng suitcases filled
with oil,
speculators from the North, determined
to start new enterprises in
this promising area,
prostitutes, shoeblacks, tramps, ballad-singers,
pedlars of combs and shoe-laces, fortune tellers
with a parrot and
accordion, and little by little
all the others: land officers,
policemen,
insurance brokers, craftsmen, school teachers
and priests
(pp.139-140).
Non
è, questo, il risultato solo di una nevrosi, di una alienazione; è
di più: è il «rancore beffardo» verso tutto e tutti; è il gusto
dello sberleffo e della risata satanica, figlie dell'amaro che
riempie la bocca. Ma più di tutto, è provocazione letteraria: si
scopre, allora, che questo brano in inglese proviene dal Lavoro
culturale:
un’americanizzazione di se stesso.
1
Avrei potuto anche schematizzare in quest'altro modo:
B-autore ——> Io
narrante <—— B-protagonista
che sarebbe stato
egualmente esatto. Questa forma, tuttavia, appare più correta come
schema della parte III, poiché evidenzia il ricongiungimento del
B-protagonista al B-autore nell'Io narrante. A quest'altezza del
romanzo, infatti, lo sdoppiamento non è ancora avvenuto.
2
Corsivo mio.
3
Il brano della lettera è tratto da: P. Corrias, Vita
agra di un anarchico.
Luciano
Bianciardi a Milano,
Milano, Baldini & Castoldi, 1993, p.104.
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