venerdì 3 agosto 2012

Chi s'arrende non scrive. La vita agra di Luciano Bianciardi

INDICE


Introduzione del 1995
Introduzione del 2001
                    
1. Due Bianciardi al prezzo di uno   
2. «Il mondo va così, e va male»  
3. La «diseducazione sentimentale»
4. La giornata d'un traduttore  
   
Bibliografia






Introduzione del 1995


Intrecciando l'analisi dell'Io – nei suoi rapporti col protagonista e l'autore – e l'analisi della struttura del romanzo, si è tentato di mettere in luce come l'elemento autobiografico determini la struttura della Vita agra.


R.A.
Ancona, maggio 1995


Introduzione del 2001
 

A sei anni di distanza dalla stesura di questo saggio, ho avvertito l'esigenza di trasformarlo in un sito e di metterlo in rete, perché le parole di Luciano Bianciardi, scrittore anarchico toscano che negli anni Sessanta, in pieno miracolo economico, pubblicò il romanzo La vita agra, sono oggi, con l'avvento delle destre al governo (e la promessa di un nuovo boom economico), attuali e, soprattutto, utili per vedere e capire il mondo che ci circonda. Per coloro che già hanno letto questo divertente e amaro romanzo (di ambientazione milanese), il sito può essere l'occasione per approfondire la conoscenza di Bianciardi; per tutti gli altri, sarà uno stimolo (mi auguro) per incontrare questo scrittore dissacrante e apprezzare la sua Vita agra.

R.A. 
Ancona, maggio 2001





1. DUE BIANCIARDI AL PREZZO DI UNO.

Ci sono due Bianciardi nella Vita agra1. L'elemento autobiografico, si sa, è uno degli assi portanti della narrativa bianciardiana. Tuttavia, se nel Lavoro culturale2 e nell'Integrazione3, l'autore aveva allontanato da sé la materia spartendosi tra due protagonisti, Luciano e Marcello; ora, in questo terzo lavoro, Bianciardi concentra la narrazione su un singolo protagonista riempiendo così quell'intercapedine, quello spazio divisorio precedentemente aperto tra sé e la storia raccontata. Effetto immediato è il sovrapporsi, in un unico Io, di autore e narratore e protagonista. Talché, leggendo la saggistica che ruota attorno alla Vita agra, ci accorgiamo che i critici, fin dai primissimi articoli in terza pagina usciti a meno di dieci-quindici giorni dalla pubblicazione del romanzo, parlano dell'Io narrante indifferentemente attribuendolo all'autore come al protagonista. Ma questo appiattimento dell'autore sul protagonista, se viene esteso all'intero arco temporale entro cui si snoda la narrazione (una decina d'anni circa, e cioè dall'arrivo di Bianciardi a Milano nel 1954, al 1962, anno in cui Bianciardi scrive La vita agra), questo appiattimento, dicevo, se generalizzato non è accettabile. La coincidenza tra il Bianciardi-autore e il Bianciardi-protagonista4 si realizza invece lungo l' asse temporale della vicenda narrata; che non coincide, si badi, con l'asse sintagmatico del romanzo. Infatti, la scansione con cui ci vengono dati gli elementi della storia è un ordo artificialis che non rispetta il ritmo logico-cronologico dell'ordo naturalis. Così, già nei primi capitoli, Bianciardi ci dà, con la sapienza del B-1962, tutti gli elementi della storia e della polemica. Ciò significa che il B-autore e il B-protagonista coincidono. La sfasatura avviene invece nei capitoli centrali, dove il B-autore, nella sua furia iconoclasta, fa a pezzi anche il se stesso protagonista, quel Bianciardi ingenuo e idealista salito a Milano dalla provincia di Grosseto. Ed è proprio in virtù di questa sfasatura che l'autore ha la facoltà di riviversi, ma col senno di poi, e di analizzare quindi il cammino che ha portato il B-protagonista verso il B-autore, cioè, verso il se stesso che ora scrive. Una volta ultimato il percorso e ristabilita l'unità, al B-autore-protagonista non resta che analizzare il se stesso attuale: ci racconta così la giornata d'un traduttore.
Ma passiamo senz'altro a vedere più da vicino le tre parti in cui ho suddiviso il romanzo.
1 L. Bianciardi, La vita agra (1962), Milano, Rizzoli, 1993. Da questa edizione le citazioni a seguire nel testo.
2.Id., Il lavoro culturale (1957), Milano, Feltrinelli, 1991.
3 Id., l'integrazione, Milano, Bompiani, 1960.
4 Per comodità abbrevierò: B-autore, B-protagonista e simili.





2. «IL MONDO VA COSI’, E VA MALE».

(Analisi della prima parte del romanzo: capp. I, II, fino a p. 43 del cap. III).

E’ la presenza, in questi capitoli, di tutti gli elementi della storia e della polemica a rivelare la sovrapposizione del B-autore al B-protagonista. Le prime quarantatré pagine del libro sono infatti una miniera di informazioni date, però, con quella scioltezza colloquiale propria di una comunicazione tra due interlocutori che ne conoscono il contesto. Dando per scontato, anzi fingendo di dare per scontata questa situazione comunicativa, Bianciardi può aprire il romanzo avviando un discorso che scorre lungo un itinerario, sviluppato prevalentemente per associazione di idee. Il lettore viene così investito da uno sfogo polemico che aggredisce tutta la vicenda milanese e immediatamente pre-milanese dell'Io narrante. Ecco allora un accavallarsi di nomi, fatti, luoghi, co tortuoso me è tipico che accada quando ci si abbandoni, dopo lunga sopportazione, alla rabbia verbale. In queste pagine, infatti, il discorso non segue un ordine logico-cronolgico ma si apre e si dirama in modo caotico, seppur non privo, di tanto in tanto, di lucidi snodi. Sarà poi nel prosieguo del romanzo, specie nei capitoli centrali, che Bianciardi ridistribuirà, ricollocandoli ordinatamente, i nomi i fatti, i luoghi, in una narrazione più lineare seppur non meno aggressiva.
Andiamo dunque a vedere alcune delle notizie anticipate in questi capitoli d'apertura.

Casa mia è sempre stata aperta a tutti, e prima di
avere una casa ho accettato persino di stare in
subaffitto dai Fisslinger e lo so io cosa mi hanno
fatto patire, quei due , tedeschi nell'animo come
erano, loro sud-tirolesi (p. 29).

Il lettore viene informato in queste poche righe di una «casa mia», che è quella stessa dive il B-autore ora, 1962, vive e scrive questo romanzo. Ma chi legge viene pure a sapere che prima di quella «casa mia» vi era stata la convivenza con la famiglia altoatesina dei Fisslinger; una convivenza difficile che si interromperà bruscamente. Nelle pagine precedenti, intanto, l'Io narrante aveva già raccontato, esordendo con una profonda digressione etimologica su Brera, della sua vita in quel quartiere. Ecco, dunque, che il tracciato Brera —> Fisslinger —> «casa mia», esposto in ordine cronologico nei capitoli centrali, è già qui tutto anticipato. Ma ancora:

L'amicizia di due uomini è più forte di una
preghiera, sì, ma quando compare Anna e sorride nel
sole, allora già in quell'amicizia qualcosa si è
incrinata, perché io sono di Anna e Carlone... sa che
domani Anna sarà più forte di lui... Anna binda nel
sole e grande e chiara. Io le stringo il braccio sotto il
mio, fiero perché Anna è bella e tutti sappiano che è
mia, soltanto mia (p. 25).

Anna, che sarà poi la «compagna di barella», è già tutta in queste poche frasi che ritornano, quasi testualmente, nei capitoli centrali:

ero orgoglioso di sfilare davanti alla gente eccitata
con sotto braccio una bella figliola così. Me la
guardavano tutti: aveva i capelli biondi annodati
sulla nuca, e teneva alto il viso piccolo e chiaro...
sembravamo proprio una coppia, una bella coppia, e
io fui ancora orgoglioso, di avere con me Anna, e
che tutti me la guardassero (p. 60).

La figura di Anna, qui, nel capitolo III, non è che una delle tante notizie e divagazioni che Bianciardi riversa sul lettore associando idee e immagini liberamente perché, come dice l'Io narrante, «un discorso tira l'altro e si arriva...» (p. 24): si arriva, partendo dal «moro», metafora dell'«anima nera» del padrone, «il padrone moro Timber Jack» (p. 30) appunto, a parlare dell'indole antirazzista dell'Io narrante stesso, dando subito al lettore un assaggio della violenza satirica con cui, più oltre, verrà dissacrata la categoria dei «ragionieri»: colonna portante del miracolo economico italiano e, nella fattispecie, milanese.
Numerosissime sono dunque le informazioni disperse nel groviglio di questi primi capitoli: nomi, fatti, luoghi che ritorneranno puntualmente nello svolgimento della narrazione. In questo magma di notizie, ve ne sono alcune, però, che anziché anticipare il "futuro", ragguagliano il lettore circa il "passato": spiegano, cioè, i motivi per cui l'Io narrante risiede da alcuni anni a Milano. Ecco allora saltar fuori per intero la tragedia della miniera di Montemassi, presso Montecatini val di Cecina che pochi conoscono «e infatti molti preferiscono credere che il paese [da cui prende il nome l'industria del «torracchione»] sia l'altro, l'omonimo, il famoso, dove da almeno un secolo i benestanti vanno a purgarsi» (p. 33): Montecatini Terme, appunto. Nel 1956, Bianciardi, in collaborazione con Carlo Cassola, aveva pubblicato un'indagine sui minatori della Maremma.1. Gli erano note, pertanto, le gravi responsabilità della Montecatini in relazione alla morte dei quarantatré minatori, alcuni dei quali suoi amici. Con competenza e sarcasmo, questa verità ritorna ora nelle pagine del romanzo, dove un riso satanico e demitizzante, carico di indignazione morale, mette alla berlina i tentativi, allora in voga «per... una libidine neocapitalistica» dei padroni, di dare all'industria un volto umano, svelandone l'ipocrisia di fondo. Le «umane relazioni», agli occhi di chi narra, altro non sono che un facsimile dei reali rapporti umani: perché «qui non era storia di rapporti fra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra uomo, giorno e tonnellata» (p. 36).
Anche la polemica, come già gli elementi della storia incontrati nella prima parte del romanzo, ritorna poi nei capitoli centrali. Contro la menzogna dei padroni:

Come qualcuno forse ricorda, in quegli anni si
parlava moltissimo di automazione, di produttività,
di seconda rivoluzione industriale e di umane
relazioni. Pareva che tutti i rapporti, produttivi e
umani, dovessero cambiare, mentre poi hanno
ricominciato – e forse non hanno mai smesso – a
prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci
nel culo (p. 127);

oppure più specificatamente contro la Montecatini, di cui, tuttavia, non viene mai rivelato il nome ma solo alluso:

Poiché l'impresa non era abbastanza redditizia, pur
di chiuderla hanno ammazzato quarantatré amici
tuoi, e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi
e apre a sinistra (p.157).


Se l'andamento del discorso, come visto fin qui, si è svolto nella parvenza d'una chiacchierata, dove «un discorso tira l'altro»; vi sono tuttavia alcuni snodi che definirei lucidi, controllati2. Sono quei momenti in cui la narrazione, che fluisce altrimenti scorrendo sciolta da un argomento all'altro, improvvisamente s'arresta per ripartire quindi bruscamente in altra direzione .Un esempio lo troviamo al termine della lunga descrizione di vita bohémienne nel quartiere di Brera. Sentiamo l'attacco:

Non fu così, certamente, ma così avrei potuto
pensare e scrivere, dieci anni or sono, la serata in
casa del pittore con Ettorino e Carlone... (p. 26);

uno stacco netto, evidenziato anche tipograficamente dalla doppia spaziatura, che introduce a un'ampia parentesi metaletteraria. Di rilevante importanza è il secondo di questi snodi controllati. Innanzitutto perché si presenta nella forma del riepilogo, consentendo così al lettore di fare il punto della situazione, dopo che trenta pagine di informazioni disordinate l'hanno investito3. Ma quel che più conta è l'introduzione del tema della «missione» che qui, seppur non svelata nei dettagli, dà modo all'Io narrante di recuperare il dramma di Montemassi:

io non ero venuto su non dico per raccomandarmi ai
mori, ma nemmeno per contare le dita ai
bibliotecari... Non ero venuto su per documentarmi
sulla rotacizzazione della dentale intervocalica...
Non ero venuto su per guardare l'osso sacro di
Carlone...Non ero venuto su per fare il verso al
Querouaques... non ero venuto su per offrire i miei
servigi al moro...La missione mia era ben altra (pp.
30-31).4


E infine il terzo di questi snodi:


Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il
torracchione di vetro e di cemento... La missione
mia...era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e,
in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le
circa duemila persone che ci lavoravano... (p. 41).



Anche per la tripartizione del romanzo si può parlare di snodi narrativi. Questi per la collocazione e il contenuto, assumono il valore d'un vero e proprio segnale. Segnano e segnalano, infatti, il confine tra la prima, la seconda e la terza parte. Non solo: in entrambi i casi, questi snodi si collocano al termine di progetti velleitari o deliri utopici, quando l'autore, cioè, raggiunto l'apice della tensione fantastico-rivoluzionaria, sembra improvvisamente accorgersi che purtroppo «il mondo va così. Cioè male. Ma io non ci posso fare nulla»5.

Ma intanto bisognava guadagnarsi lo stipendio (pp. 
43-44);

è la frase che il lettore trova proprio a ridosso del progetto di far esplodere col grisù il «torracchione» della Montecatini, in chiusura della prima parte del romanzo. Chiude la seconda:

Nell'attesa che ciò avvenga, e mentre vado
elaborando le linee teoriche di questo mio
neocristianesimo a sfondo disattivistico e
copulatorio, io debbo difendermi e sopravvivere (p.
163).6

Dopo la costatazione amara espressa in queste frasi, per l'autore è sempre un ricominciare daccapo. La prima volta, ricomincia a narrare, ordinatamente e dettagliatamente, la storia che, scompostamente, aveva già esposto nella prima parte: Bianciardi ci racconta così la sua «diseducazione sentimentale»7. Quindi, eccolo nuovamente daccapo a ridistribuire, per la terza volta, gli affanni di questa «vita agra». Non più, ora, nell'arco ampio del suo decennio milanese, ma nel giro stretto delle ventiquattro ore, della giornata d'un traduttore.
1 L.Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma, Bari, Laterza, 1956.
2 Naturalmente, è quasi superfluo rammentarlo, nulla è lasciato al caso. Voglio dire che l'andamento sbrigliato, messo in luce in questa breve analisi, è frutto di una precisa volontà dell'autore. E’ solo per comodità, dunque, che utilizzo il termine "controllato": per mettere in risalto, cioè, le diversità che pur esistono tra ciò che si è fin qui visto e le parti che mi accingo ora ad analizzare.
3 Il riepilogo, ricorrente nella Vita agra, è in Bianciardi un accorgimento tecnico-stilistico che svolge funzioni diverse. Intanto è utile al lettore, come visto; mentre dalla prospettiva dell'Io narrante, si presenta come un resoconto amaro, espressione dell'impotenza davanti agli eventi del mondo. Altre volte assume un tono ironico e va a pungere il bersaglio di turno. Sempre, funge da snodo narrativo. Ne sono alcuni esempi le pagine 30-31, 53, 55, 73, 156-157.
4 Corsivo mio.
5 M. Terrosi, Bianciardi com'era (Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano), Grosseto, Il paese reale, 1974, p. 43.
6 Corsivo mio.
7 Così scrive Bianciardi in una lettera de 26 aprile 1961: «Ho in animo di buttar giù una grossa pisciata in prima persona sulla avventura milanese, sul miracolo italiano, sulla diseducazione sentimentale che è la sorte nostra d'oggi». Poi, l'8 agosto 1961, in un'altra lettera, scriverà: «E il prossimo libro che scrivo ti giuro che ce le metto tutte, e ti faccio la storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del "Miracolo"» (M. Terrosi,Bianciardi com'era cit., pp. 23 e 25; virgolette dell'autore).
        


3. La «DISEDUCAZIONE SENTIMENTALE».

(Analisi della seconda parte del romanzo: da p. 44 del cap. III a p. 163 del cap. X)

Nella prima parte del romanzo, come si è tentato di dimostrare, c'è sovrapposizione tra il B-autore e il B-protagonista. E’ dunque il Bianciardi disilluso chi narra, il Bianciardi del 1962, quello che ha già sbattuto la faccia contro il muro liscio dell'indifferenza milanese; quel muro di «omertà, cricca, mafia, società d'affari»1 che ha fatto a pezzi il suo sogno giovanile «di star della parte dei badilanti e dei minatori», perché «se in qualche modo la mia poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò buona questa cultura»2. Bianciardi credeva dunque nella possibilità di un rinnovamento sociale realizzabile con il contributo anche della cultura . Sono gli anni del secondo dopoguerra, anni in cui la classe intellettuale, uscita vincitrice dalla Resistenza, s'era illusa di viver un momento mitico: la fondazione di una nuova società, di una nuova umanità. Ma quest’entusiasmo si reggeva su un troppo facile ottimismo che di lì a qualche anno avrebbe lasciato spazio solo all'amarezza:

Stiamo tirando le somme di quella colossale
fregatura che è stato il dopoguerra3.

Primi cirri di questa amarezza saranno Il lavoro culturale, L' integrazione, romanzi-pamphlet carichi d'un'ironia spietata che nessun colpo risparmierà a questa generazione di vincitori e sconfitti a un tempo. Ma la vera tempesta scoppierà nel 1962, dopo dieci anni circa d'incubazione: La vita agra. Già, perché ora Bianciardi sa che sarebbe da sciocco, da incosciente, continuare a credere, o solo sperare, in una cultura capace di «giovare» al lavoro e all'esistenza dei badilanti, dei muratori, dei minatori.
Infatti, la cultura del miracolo economico è quella dei Fernape, di quegli intellettuali che vivono nel limbo « d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura»4. Lo si chiami muro o fossato, resta il fatto che tra il ceto intellettuale e il popolo erano tornate quell'incomunicabilità, quell'incomprensione – e forse anche diffidenza – che pure il momento magico della Resistenza aveva eliminato. Non c'è da stupirsi allora, se per questi "fernapizzati" il crollo della miniera sotto Montemassi con i suoi quarantatré morti non è una tragedia bensì un «buon tema». La tragedia sta, semmai, nel «pericolo di cadere nel solito neorealismo» (p. 45) provocando un’involuzione culturale, un processo antistorico. Guai a ostacolare il «passaggio dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla storia» (p. 46).
Infatti, la cultura del miracolo italiano è quella della stampa che vive solo nella notizia quotidiana per cui, anche «per il settore sociologico» quella di Ribolla è ormai « invecchiata come notizia. A meno che non si trovi un aggancio di attualità, non so... un nuovo scoppio, un'agitazione» (p. 44).
Infatti, la cultura del miracolo economico italiano è quella che, in seno alla sinistra, si conforma ai princìpi politici esposti dalla togliattizzata vedova Viganò: «Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui luoghi di lavoro, ciascuno al suo posto»; e chi sgarra, chi non è fedele alla linea, è un «opportunista», è un «deviazionista», uno che vuol affermare una propria «linea individuale, una ... ideologia personale, contro quella del partito» (p. 51).
C'era dunque da stupirsi? Bianciardi, che crede nel modello dell'intellettuale organico; Bianciardi che per nulla è "fernapizzato", si stupisce eccome. Anzi: è lo stupore una sorta di congegno stilistico che il B-autore applica agli occhi dell'Io narrante, generando quell'effetto di straniamento che realizza una visione ridicola e drammatica del contesto sociale. Così, tra spunti esilaranti e spigoli d'amarezza, il lettore assiste all'iniziazione, anzi alla «diseducazione sentimentale» che in questi sette capitoli centrali trasformerà il B-protagonista, ingenuo e volenteroso, nel B-autore: uomo disilluso e disperato.
La narrazione di questo "viaggio" si dipana rispettando l'ordine logico-cronologico degli eventi: è in questa dimensione temporale che si muove il B-protagonista. Tuttavia, l'andamento logico-cronologico è ripetutamente spezzato dell'irrompere della dimensione temporale del B-autore, collocato, come sappiamo, nel 1962. Alle due diverse dimensioni temporali corrispondono due diversi Io narrante, ciascuno con il proprio carico d'informazione e relative prospettive sul reale. Ora, trattandosi d'un romanzo ad alto contenuto autobiografico, la variabile "informazione" risulta informata dalla porzione di esistenza realmente esperita del B-storico: cioè dal Bianciardi in carne e ossa e psicologia5. L'oscillazione dell'Io narrante – ora nella dimensione temporale del B-autore, ora in quella del B-protagonista – si coglie proprio nei repentini mutamenti di prospettiva (giudizi sul mondo, illusioni, speranze via via deluse, eccetera) strettamente vincolata alla quantità d'informazione/esperienza posseduta dell'Io narrante stesso. Avremo pertanto:
- narratore > personaggio; quando l'Io narrante si trova nella dimensione tempo/informazione del B-autore, il cui carico di esperienza è fisso al 1962;
- narratore = personaggio; quando l'Io narrante è situato nella dimensione tempo/informazione del B-protagonista, con un carico di esperienza che cresce in proporzione allo svolgersi della narrazione dei capitoli centrali, fino a coincidere col B-autore del 1962. Lo scarto che si realizza tra le due diverse prospettive/quantità d'informazione, permette al B-autore-1962 di prendere le distanze dal B-protagonista e, quindi, di ironizzare sul se stesso del passato. Capita sovente di assistere a situazioni tipo questa:

No, per intendere la città, per cogliere al di sotto
della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui
favoleggiavano, occorreva – adesso lo capivo – fare
la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come
loro, soffrire come loro. Far vita di quartiere...
Adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far
esplodere io da solo... la cittadella del sopruso, della
piccozza e dell'alambicco. No, bisognava allearsi
con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla,
amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.
Perciò io ero contento di abitare in questa periferia
popolana e laboriosa, di vivere in casa con una
coppia tipica di immigrati da una zona
sottosviluppata, l'Alto Adige o Tirolo meridionale
che dir si voglia, come erano appunto i coniugi
Fisslinger. I quali innanzi tutto fabbricarono con
quattro vecchie tavole due stipetti da tenere
nell'ingresso e riporci le scarpe, entrando da fuori.
Perché entrando da fuori, se non volevamo sporcare
le mattonelle lucidate a cera, conveniva togliersi le
scarpe e infilare le ciabatte, che lì all'Upim si
trovavano, da uomo e da donna, per poche centinaia
di lire (pp. 94-95)6.

Leggendo con attenzione questo passo, si possono notare diversi gradi di coscienza-informazione, e quindi di tempo-esperienza, del protagonista: mutamenti, cioè, che si realizzano esclusivamente nel piano del B-protagonista.Il doppio sintagma «adesso capivo», infatti, segnala che il B-protagonista, coincidente con l'Io narrante, è, nel suo viaggio esperienziale verso il B-autore, a uno stadio – temporale, di coscienza e di quantità di informazione posseduta – più avanzato rispetto al B-protagonista – velleitario bombarolo – delle pagine precedenti. Tutto questo lo vedremo comunque meglio più oltre, quando analizzerò le tappe di questa «diseducazione sentimentale». Per ora, ci interessa sapere che chi sta parlando è il B-protagonista. Dunque a lui va attribuito l'Io narrante che dice: «Perciò io ero contento... ecc.». Ma è proprio adesso che, maliziosamente, la voce del narratore comincia a calzare progressivamente quest'aria di felicità familiare, fino a farle assumere, per eccesso di serietà, i colori propri della parodia. Succede che il B-autore, dall'alto della sua esperienza-1962, subentra al B-protagonista, cronologicamente situato in posizione più arretrata, portando con sé una diversa prospettiva di giudizio sul reale. Non si dimentichi infatti che nel secondo capitolo, il B-autore si era già lamentato di questa convivenza:

ho accettato persino di stare in subaffitto dai 
Fisslinger e lo so io che cosa mi hanno fatto patire,
quei due... (p. 29).

Insomma: il B-protagonista, qui, crede davvero che «per intendere la città... [occorra] fare la vita grigia dei suoi grigi abitatori», e s'illude pertanto che «di qui sarebbe nata la solidarietà... contro i torracchioni del centro, contro i padroni mori e timbergecchi» (p.95). Ma a tutto ciò, per esperienza, il B-autore non crede più.
In altri casi, i diversi piani temporali, non sfumano uno nell'altro: si assiste allora all'irrompere deciso del B-autore. Tipiche, in questo senso, sono le divagazioni di carattere, diciamo così, socio-politico, profferite quasi sempre, per l'appunto, dal B-autore. Si veda la lunga riflessione sul coito che, ridotto a mero «ideogramma», è considerato la causa prima della noia, della spersonalizzazione, «dell'attivismo vacuo... ateleologico della civiltà... Questo vuole la classe dirigente...muoversi all'infinito...Ma io so che la noia finirebbe nell'attimo in cui si ristabilisse la natura veridica del coito. Lo so, finirebbe anche la civiltà moderna» (pp. 63-64-65). A questo punto, terminata la riflessione, l'Io narrante dichiara:

Son cose queste che soltanto adesso, io, e con 
visibile sforzo, riesco a mettere sulla carta ed 
esprimere a parole, ma le scoprimmo vivendole, 
Anna e io... (p. 67)7.

L'avverbio di tempo «adesso» indica qui l'istante stesso della stesura della Vita agra, cioè il 1962. Ma vien detto pure, tuttavia, che vi è stato un tragitto esperienziale («le scoprimmo vivendole») per giungere al romanzo, cioè alla chiara presa di coscienza della propria esperienza. E’ dunque al Bianciardi che scrive, e quindi all'autore, che va riferito l'Io narrante. E questo perché, l'avverbio «adesso», è molto più avanti negli anni rispetto al sintagma «adesso capivo» legato, come sopra abbiamo visto, al B-protagonista e perciò necessariamente indicante un tempo anteriore.
Anche nella seconda parte del romanzo, come già nella prima, vi è una digressione di carattere metaletterario:

Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un'ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla... E’ vero, e di mio ci aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembrava che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano (p. 156).

E’ quasi superfluo precisare che l'Io narrante e il B-autore sono qui sovrapposti. Tuttavia, a sciogliere ogni residuo dubbio, c'è sempre il periodo conclusivo dell'articolo che Bianciardi scrisse per la rubrica Nascita di uomini democratici nella rivista di Luigi Russo, nel 1952, dove i riscontri sono quasi testuali:

Non mi pare di aver detto grandi cose,... so bene di essere, senza modestia, un uomo mediocre, eguale, né migliore né peggiore di centomila altri come me. Ma appunto per questo io credo che la mia testimonianza abbia qualche interesse, perché è tipica della mia generazione8;

una generazione, questa, che ora, 1962, è completamente avvinta al neocapitalismo, come La vita agra testimonia.

Si è visto fin qui che gli eventi narrati nella parte centrale si susseguono, almeno nelle grandi linee (ad esempio: vita a Brera > casa dei Fisslinger > «casa mia») rispettando l'ordine logico-cronologico. Allo stesso modo, il lettore assiste al realizzarsi della «diseducazione sentimentale» che avviene per tappe:
- l'Io narrante è a Milano per far saltare in aria la Montecatini;
- incontra la realtà culturale degli "intellettuali-ragionieri", simbolicamente incarnati nel dottor Fernape;
- incontra la politica di sinistra, emblematicamente rappresentata dalla vedova Viganò;
- ha un fugace contatto con gli operai "invisibili" di Milano; difficilmente incontrabili da chi lavora in redazione; metafora della reale frattura tra intellighenzia e proletariato. Ma simbolo anche, questi operai grigi, «con gli occhi gonfi, in marcia spalla a spalla», che «sfilano a passi lesti», assonnati e frettolosi, «senza voltare gli occhi attorno... intabardati, con una sciarpa di lana al collo, o il passamontagna calato sugli occhi,... uomini grigi... che non rallentano la marcia... e continuano ad arrancare» (p. 54); simbolo, dicevo, del lavoro alienato e alienante della società industriale;
- incontra la vita aziendale, tutta fondata sui «rapporti di forza con cui fare i conti» (p.69); un lavoro, anche questo, non meno alienato e alienante di quello operaio;
- incontra i «grigi abitatori» di Milano: «Adesso capivo... bisognava allearsi con la folla» (p.95), e l'Io comprende la velleità del suo progetto dinamitardo. Ma ben presto la «folla» si rivelerà per quel che veramente è: «non... uomini, ma pesci,... ectoplasmi, baccelloni di ultracorpo» (p. 116), e, ancora, «larve», «fantasmi»;
- incontra l'egoismo e l'indifferenza quotidiani, simbolicamente dati nell'episodio dell'ubriaco9, che porteranno l'Io a esclamare: «Tutti badavano ai fatti loro... Ingenuo ero io a meravigliarmene... Il mondo è fatto in questo modo, non l'avevo ancora capito?» (p. 103);
- incontra la morte: prima negli amici suicidi, che i colleghi «scancellano», e poi nell'amico Enzo, che non aveva il «vizio assurdo... no, Enzo voleva campare, conoscere gente, andarci d'accordo... e invece... morì» (pp. 152-153-154);
- il viaggio è finito e l'Io dichiara: «Nel frattempo sono diventato anch'io come gli altri, non ho tempo per i guai del prossimo» (p.154).

La «diseducazione sentimentale» è dunque compiuta; il B-protagonista si è ricongiunto col B-autore. Da cui, per sillogismo, si dovrebbe concludere che il B-1962, il B-storico, l'autore insomma del romanzo, sarebbe, a questa altezza cronologica, un perfetto milanese. Ma davvero abbiamo di fronte un integrato? un ectoplasma? L'Io, giunto a Milano per adempiere alla «missione» tacitamente affidatagli da Tacconi Otello, si è finalmente arreso al «morso» della città? Questo sostiene la gran parte dei critici, suffragata, a quanto pare, dalle parole profferite dallo stesso B-autore in una delle sue ripetute irruzioni, parole rivolte proprio a Tacconi Otello:

Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo,... la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche,...la vita è agra, lassù (pp. 158-159).

Non v'è dubbio, certo, sulla stanchezza, la spossatezza di quest'ultimo Bianciardi. E tuttavia non si può parlare di lui come di un uomo integrato nella vita del boom economico. Non lo si può eguagliare ai «ragionieri» milanesi. Di sicuro, gli è chiaro che la lotta, sia attraverso «il lavoro culturale» che la dinamite, purtroppo non serve a mutare granché il sistema:

Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia.
Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbero automaticamente altri specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere, e si sono specializzati sugli stessi libri di quelli che dirigono adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di ora, e farebbero le stesse cose... E la gente continuerebbe a scarpinare, a tafanarsi, più di prima, a dannarsi l'anima. No, Tacconi, ora so che non basterebbe sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine (pp.159-160).

Eppure, malgrado queste parole, se il protagonista si fosse realmente arreso, noi, oggi, non lo avremmo mai saputo: come nulla sappiamo delle altre milioni di anonime «formiche» milanesi. E’ proprio la posizione di non-integrato, che ha generato la prospettiva straniata con cui Bianciardi ha continuato, nonostante tutto, a osservare, con occhio spietato il mondo intorno a lui. Senza questa, il B-autore non sarebbe mai esistito e con lui il B-protagonista e La vita agra. Se si fosse arreso, non avrebbe scritto.
1 M. Terrosi, Bianciardi com'era cit,pp. 25-26.
2 L. Bianciardi, Nascita di uomini democratici, in «Belfagor», VIII, 4, 1953, p. 471.
3 M. Terrosi, Bianciardi com'era cit, p. 63.
4 Dante, Inf., IV, 106-107.
5 «... la storia dell'ubriaco è vera... Tranne il particolare della morte letta da me sul giornale... nel libro sono pochissime le cose non vere. Non è vero per esempio la storia di me che faccio una buca per la strada e il comune mi paga la giornata. Non è vero che la questura mi tenne dentro tutta la notte: mi rilasciarono immediatamente. Nient'altro, credo. Tutto il resto è vero, la mia vita a Milano è stata così, anche il mio stato d'animo era quello»; M. Terrosi, Bianciardi com'era cit, p. 38-39, lettera del 18 ottobre 1962. Certo, non bisogna dimenticare che si è comunque di fronte a un romanzo, non a un’autobiografia, e che quindi è pur sempre un'invenzione artistica. Tuttavia, ai fini della mia ricerca, ciò non influisce.
6 Corsivo mio.
7 Corsivo mio.
8 L. Bianciardi, Nascita di uomini democratici cit., p. 471.
9 Episodio, tra l'altro, vero. Cfr. n. 16.


4. LA GIORNATA D'UN TRADUTTORE.

(Analisi della terza parte del romanzo: da p. 163 del cap. X e cap.

XI)

L'oscillazione dell'Io narrante, già incontrata all'interno della seconda parte, si verifica anche nell'arco intero del romanzo. Anzi, è in virtù della diversa coincidenza dell'Io narrante, ora col B-autore ora col B-protagonista, e la conseguente quantità d'informazione da lui posseduta in relazione alla collocazione temporale, a determinarne la tripartizione.
-Parte I: chi narra possiede tutti gli elementi della storia e della polemica: ha, cioè, il massimo carico d'informazioni. L'Io narrante è infatti il B-autore e la sua prospettiva si sovrappone a quella del B-protagonista. Lo schema sarà perciò:

B-autore> Io narrante > B-protagonista1

-Parte II: l'Io narrante oscilla tra la dimensione temporale del B-autore, fissa al 1962 col relativo carico d'informazione e conseguente prospettiva, e la dimensione temporale del B-protagonista: dimensione non fissa, bensì in moto verso il B-1962. Lo schema di tali oscillazioni sarà pertanto:







mentre la direzione del flusso informativo sarà:




-Parte III: chi narra è il B-protagonista che, compiuta la «diseducazione sentimentale», coincide nuovamente col B-autore-1962, condividendone il carico d'informazioni :

B-autore > Io narrante < B-protagonista

Questa terza parte è scandita da segnali orari, dati talvolta col richiamo esplicito alle ore – «sono le dieci e un quarto», «entro le undici», «dopo le tre», «verso le quattro», ecc... (pp. 174, 176, 182 e 185); talaltra con avverbi di tempo o segmenti sintattici del tipo: «ogni mattina», «al pasto della sera», «finita la cena», «lo porta giù», ecc... (pp.163, 189, 195 e 196). E’ proprio un segnale temporale ad aprire la narrazione di questa giornata tipo d'un traduttore free-lance:

Ogni mattina mi desta il filo di luce che trapela 

dalle stecche delle tapparelle, e sotto il ringhio 

della città che ha cominciato a mordere (p. 

163);

poi, poche righe più sotto:

i tafanatori delle nove e dieci, nove e un quarto,

sono i più pungenti, i più agguerriti, i più 

tossici (p. 163).

Agro subito, il vivere; fin dal risveglio, descritto nel dettaglio: mutande, calzoni, scarpe, calze, la camicia di lana, la giacca, le sigarette; tutto raccattato al buio, per non svegliare Anna che «dorme incosciente». Avanti così fino all'ascensore, poi:

Appena fuori c'è il traffico che mi investe 

(p.164);

quel «traffico astioso» di cui l'Io narrante seguiterà a parlare dimenticando il filo principale del discorso, che verrà ripreso solamente una pagina più avanti con una frase che diventerà, in queste pagine, una sorta di refrain:

Ci sono due passaggi zebrati, dalla porta di 

casa mia all'edicola dei giornali (p. 165).

E’ la quotidiana passeggiata mattutina da casa al bar, passando per l'edicola, e ritorno. Una passeggiata che, almeno narrativamente, è ritardata da insistenti digressioni: dapprima dirette a sfatare il falso mito dell'auto quale incremento della libertà dell'individuo; poi trasformate in una invettiva rancorosa contro i milanesi, fautori d'una nebbia che in realtà è:

una fumigazione rabbiosa, una flatulenza di

uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo

di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare 

delle segretarie, delle puttane, dei

rappresentanti, dei grafici, del PRM, delle

stenodattilo, è fiato di denti guasti, di stomachi 

ulcerati, di budella intasate, di sfinteri stitici, è 

fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di 

bischeri disoccupati (p. 167).


L'analisi meteorologica va avanti per molte righe ancora, quindi si ritorna al discorso lasciato in sospeso:

Dal portone di casa mia all'edicola, dicevo, ci 

sono due passaggi zebrati pericolosi (p.168);

ma è solo una falsa partenza perché ecco pronto un altro stop, e si cambia immediatamente binario per dirigersi sugli incidenti stradali e di qui nei meandri d'un curioso aneddoto in prima persona, in relazione ai lavori stradali. poi, di nuovo:

Il doppio passaggio zebrato – viale e 

controviale – è pericoloso (p. 172).

Nulla da fare: una fermata ancora. Ecco infatti pararsi davanti «uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone». E’ il supermercato, dove l'Io narrante si ferma a osservare quel «branco» di « donnette ipnotizzate» ed eterodirette che tutto acquista e «paga automaticamente» (pp. 170-171). Poi scatta il ricordo del «bottegone» di provincia, finché, per la quarta volta vien detto del

passaggio zebrato... doppio e pericoloso, viale 

e controviale dal cancello di casa mia 

all'edicola dei giornali (p. 172);

e stavolta, finalmente, si parte davvero.
Soventi sono pure le irruzioni dei brani di altri testi. Non segnalati tipograficamente, questi corpi estranei non sono immediatamente distinguibili, per cui, quando il lettore vi si imbatte, prosegue per qualche riga ancora la lettura, poi avviene il corto circuito. Allora è costretto a fermarsi, tornare indietro di qualche riga e quindi ripartire. Un esempio:

Ogni mattina io riattacco come se avessi

smesso dieci minuti prima, perché il cervello in

realtà non si è mai arrestato, nemmeno

dormendo: il risveglio, il caffè, la marcetta fino

ai cartelloni del cinema, ma intanto, quasi senza

che me ne accorga, ho continuato a pensare.
Mercoledì, il destarsi della città nelle retrovie

francesi, una quarantina di chilometri dietro il

fronte nella primavera del diciotto. Lo

sbigottimento, la folla che converge verso la

Place de Ville,... (p. 179)2.

A ingannare il lettore concorrono alcuni elementi. Innanzitutto il riferimento temporale a «mercoledì», che induce l'aspettativa verso una divagazione sul tipo di quelle incontrate nelle pagine immediatamente precedenti:

il lunedì la loro ira è alacre e scattante, stanca e

inviperita il sabato. La domenica non li vedi, li

senti però, dentro le case, indaffarati coi

rubinetti, le vasche da bagno, ... (p. 164);

e poi il verbo, quel «destarsi», che richiama subito alla mente il sintagma «ogni mattina», letto qualche riga più sopra. Neppure «città» e «retrovie» possono allarmare chi legge sull'imminente tranello, tutt'altro. Insomma, la frase «mercoledì, il destarsi della città nelle retrovie» volge l'aspettativa del lettore verso una digressione che descriva un tipico mercoledì mattina nella periferia della città: Milano, ovviamente. Ma una serie di elementi chiaramente inconciliabili con questa aspettativa – «francesi», «il fronte... del diciotto», «Place de Ville», ecc... – costringono ben presto il lettore a un repentino dietro-front. Casi del genere s'incontrano in tutto il romanzo, non solo in questa terza parte. Con essi, l'autore esprime narrativamente la nevrosi del traduttore: la sua nevrosi. Sono infatti brani tratti da libri tradotti realmente da Bianciardi; il quale parla di questa nevrosi anche in una lettera del 1964:

Traducevo a ritmo infernale decine e decine di

libri; ...incubi notturni (il più funesto era così:

dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a

tradurre quel che avevo sognato...)3.

Ma già in altre pagine del romanzo:

Ciascuno di costoro [gli autori tradotti] m'ha

portato via un pezzo di fegato, e tutti insieme

mi hanno dannato l'anima, mi hanno stravolto

persino l'infanzia (p. 139);

ed ecco lo stravolgimento intaccare non solo la memoria, ma la narrazione stessa, trasformandosi in stravolgimento verbale:

Quando non riesco a prendere sonno, penso alle

mie vacanze, bambino, su a Streetrock, o nei

prati attorno a Plaincastle, a St. Flower, ad

Archback, a Chestnutplain. Ripenso ai lunghi

viaggi sulle strade verso Download, Hazely,

Copperhill, Meadows, Bouldershill, Gaspings, e

poi il ritorno, dalla parte del camposanto di

Scrub, nella grande pianura open to winds and

to strangers. Then from everywhere crowds had

rushed to this newly-found Mecca: black

dealers from the South, carryng suitcases filled

with oil, speculators from the North, determined

to start new enterprises in this promising area,

prostitutes, shoeblacks, tramps, ballad-singers,

pedlars of combs and shoe-laces, fortune tellers

with a parrot and accordion, and little by little

all the others: land officers, policemen,

insurance brokers, craftsmen, school teachers

and priests (pp.139-140).

Non è, questo, il risultato solo di una nevrosi, di una alienazione; è di più: è il «rancore beffardo» verso tutto e tutti; è il gusto dello sberleffo e della risata satanica, figlie dell'amaro che riempie la bocca. Ma più di tutto, è provocazione letteraria: si scopre, allora, che questo brano in inglese proviene dal Lavoro culturale: un’americanizzazione di se stesso.
1 Avrei potuto anche schematizzare in quest'altro modo:
B-autore ——> Io narrante <—— B-protagonista
che sarebbe stato egualmente esatto. Questa forma, tuttavia, appare più correta come schema della parte III, poiché evidenzia il ricongiungimento del B-protagonista al B-autore nell'Io narrante. A quest'altezza del romanzo, infatti, lo sdoppiamento non è ancora avvenuto.
2 Corsivo mio.
3 Il brano della lettera è tratto da: P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Milano, Baldini & Castoldi, 1993, p.104.
 


BIBLIOGRAFIA
(relativa al materiale consultato)



Testi di Luciano Bianciardi:

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Il lavoro culturale (1957), Milano, Feltrinelli, 1991.
La vita agra (1962), Milano, Rizzoli, 1993.
Aprire il fuoco, Milano, Rizzoli, 1969.



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